LE STELLE

e se fossero sulle nostre spalle le stelle
brucerebbero la notte che ci opprime
la terra collasserebbe
e oltre la nostra mente non sarebbero più i sogni
ma a baciarci sul collo
per farci cedere le gambe
come un amante che dal basso ci solleva.

«Non abbiamo più nulla da dirci». Stavo rileggendo nuovamente il messaggio di Valeria quando ho pestato un escremento fresco fresco uscito dal segugio a pelo raso che mi precedeva di una dozzina di metri. La materia era imprigionata nella mia suola come un terrorista yemenita a Guantanamo. Sarebbe servita dell’erba, ma lì intorno vedevo solo cemento. Allora avevo deciso di strisciare le scarpe contro il muro esterno del tribunale, lasciando la mia personale firma proprio lì, di fianco alla scritta DIO C’È fatta con lo spray.

Mentre mi accertavo del buon esito della manovra, si palesava il Comandante Carlo Franzese della Polizia Municipale in giro di routine per punire il degrado nelle zone urbane.

«Non vorrà multarmi per questo?».

«Ma no! Le pare? Lei ha notevoli capacità artistiche! Tenga».

Fabrizio Valsecchi era noto in curva nord come l’Orco, in paese aveva iniziato da una piccola bottega sotto i portici e nel giro di un paio d’anni aveva creato una sorta di impero. Dai pullman in arrivo scendevano in continuazione comitive di forestieri impazienti, veri e propri plotoni famelici in totale trance agonistica, desiderosi di fiondarsi dentro a uno dei suoi negozi tappezzati di articoli religiosi per accaparrarsi un souvenir.

Qualcuno ha fatto l’occhiolino al caldo sole estivo, ha detto una parolina dolce alla persona che gli stava accanto e mi ha afferrato per il collo proprio quando soffiavo il naso alla farfalla rossa e gialla che mi stava impollinando.
Sono muta, mentre già tremavo e impallidivo come solo i fiori di campo sanno fare, non un grido di dolore è uscito dal pistillo, non una lacrima dal calice, non una goccia di sangue dalla corolla. Ma non sono sorda. Non le ho dimenticate le parole che uno sconosciuto dalla voce poco rassicurante ha pronunciato prima di quel gesto vile, folle e turpe. No, non le ho dimenticate affatto quelle parole umane.

Aveva preso in affitto un bilocale ammobiliato in via Cicco Simonetta, a due passi dai Navigli, a non più di quattro da corso Genova e a non più di otto dal parco dei transessuali.
Era un appartamentino niente male, superaccessoriato, con l’aria condizionata, il freezer dietetico regolabile e il televisore a cristalli liquidi; soltanto l’aveva trovato un po’ troppo caro per le sue tasche: ottocento euro in contanti al mese, niente assegni, bonifici o dilazioni.
Quando si era messo a discutere dell’affitto con il proprietario, un giovanotto tutto impomatato che odorava d’acqua di colonia, quest’ultimo, storpiando le parole, gli aveva risposto che i pvezzi degli affitti a Milano evano quelli, pvendere o lasciave, e che non gliene fvegava un accidenti se con ottocento euvo chiunque avebbe potuto pvendeve in affitto l’intevo centvo stovico di Lavino o di qualsiasi altvo paese.